(20 marzo, 1999)
Corriere della Sera
Come veri patrioti i cosiddetti arbëreshë di Lungro, in Calabria, parteciparono alla spedizione dei Mille. Un esercito per Garibaldi. "Essere straordinario, le nostre lingue non hanno parole come definirti; i nostri cuori non hanno espressioni come attestarti la nostra ammirazione."
. Come veri patrioti i cosiddetti arbëreshë di Lungro, in Calabria, parteciparono alla spedizione dei Mille. Un esercito per Garibaldi. "Essere straordinario, le nostre lingue non hanno parole come definirti; i nostri cuori non hanno espressioni come attestarti la nostra ammirazione."
L' "Indirizzo del popolo di Lugro", scritto
con un' abbondanza di punti esclamativi pari al barocco entusiasmo, non
arrivo' mai tra le mani di Garibaldi. Sul piu' bello che era alle porte
di Castrovillari, infatti, la trafelata Commissione reduce da un
viaggio interminabile vide sbigottita la carrozza del Generale "che a
punta di giorno si dileguava attraverso i querceti che adombrano la
strada consolare". L' "Eroe dei Due Mondi" cosi' affettuosamente
incensato nel messaggio mai ricevuto (testuale: "L' America puo'
vantare un Washington, la Svizzera un Guglielmo Tell ma l' Italia, piu'
superba ancora...") sapeva bene, pero' , quanto grande fosse il cuore
patriottico della gente di Lungro, paesotto calabrese in provincia di
Cosenza. Perche' proprio da li' , da quello che grazie alla Eparchia e'
considerato la "capitale religiosa" degli "arbereshe", cioe' gli
albanesi d' Italia, venne forse il contributo piu' sentito, in
percentuale, alla marcia garibaldina su Napoli. Cinquecento volontari
su cinquemila abitanti. Tolti i vecchi, le donne e i bambini,
praticamente un uomo su tre. L' episodio e' ricordato, di striscio, in
un piccolo e prezioso libro appena uscito. Si intitola Il tenente
generale, e' stato scritto da Giuseppe Martino, oggi presidente della
Provincia di Catanzaro dopo aver fatto per anni il primario ortopedico,
non ha troppe pretese letterarie ma dovrebbe essere letto in tutte le
scuole. Come antidoto ai veleni del razzismo anti - albanese che,
stando ai sondaggi, infettano i nostri ragazzi in questi tempi di
gommoni albanesi, schiave albanesi, scafisti albanesi. Racconta infatti
la storia di Pier Domenico Damis, un giovane di Lungro formatosi alle
idee liberali e risorgimentali nel Collegio Italo - Greco "Sant'
Adriano" di San Demetrio Corone, culla della intellighentzia albanese
in Calabria, cosi' aperto sul mondo delle idee da venire assaltato nel
1799 dai contadini pseudo - sanfedisti e filo - borbonici sulla base di
una precisa convinzione: "A Sant' Adriano pure Cristo e' giacobino!".
Aveva 24 anni, Pier Domenico, quando Attilio ed Emilio Bandiera
arrivarono nel 1844 a morire in Calabria inseguendo il loro sogno
risorgimentale. E fu allora che fece la scelta cui avrebbe dedicato la
vita. Lasciandosi coinvolgere nei fermenti irredentisti del ' 44 e poi
del ' 47 fino a buttarsi a corpo morto nella mischia nel 1848. Punto di
partenza di un' esistenza come poche altre avventurosa: tre anni di
latitanza sulle montagne, la decisione di raggiungere il Piemonte, la
cattura a casa di Maria (un donnone patriottico che all' arrivo dei
gendarmi "allargando al massimo il "plisse' scampanato" dell' ampia
gonna rossa albanese, nascondeva il latitante facendolo accoccolare fra
le poderose gambe"), la condanna a morte emessa dalla Gran Corte
Criminale. Ci credeva davvero nell' Italia, il giovane Damis. E lo
rivelano le lettere che invio' ai fratelli e alla madre dal
penitenziario di Procida, dov' era stato rinchiuso dopo che la pena di
morte gli era stata tramutata in 25 anni di carcere duro. Lettere
bellissime del futuro ufficiale dell' Esercito Regio e futuro senatore,
dove, tra parole impossibili oggi usate solo da Filippo Mancuso tipo
"impreteribilmente" o "spesseggiare", emergeva un amore assoluto per
questa patria di adozione in nome della quale lui e altre migliaia di
albanesi (al di la' dell' "arbareshe" che parlavano in casa) erano
pronti a morire. Ed ecco la prigionia con Poerio e Settembrini, l'
imbarco verso l' esilio su un veliero che nelle intenzioni dei Borboni
(i quali pagarono 9.000 colonnati promettendone altrettanti a missione
compiuta) doveva scaricare i 66 patrioti il piu' lontano possibile
nelle Americhe, il dirottamento della nave dovuto al figlio di
Settembrini, lo sbarco in Inghilterra e da li' il viaggio a Torino e
poi a Quarto in tempo per partecipare alla leggendaria spedizione dei
Mille. Sempre al fianco di Garibaldi fino alla battaglia del Volturno.
Sullo sfondo, sempre loro: gli albanesi d' Italia. Decine di migliaia
di uomini e di donne concentrati un po' in tutte le regioni
meridionali, dalle Puglie alla Sicilia ma soprattutto in 25 comuni
calabresi, arrivati a ondate nel nostro (e loro) Paese molto prima che
inventassero i gommoni. E cioe' a partire dal 1461 (quando vennero a
migliaia al seguito di Giorgio Castriota "Scanderbeg" accorso in aiuto
di Ferdinando di Aragona) e piu' ancora dal 1468, dopo la morte del
condottiero e la fine del suo sogno di impedire ai turchi la conquista
dell' Albania. Italiani piu' italiani di tanti italiani. Innamorati di
Giuseppe Garibaldi al punto di paragonarlo al loro eroe perduto (come
in una poesia di Zep Serembe: "il grande prode in camicia rossa /
eguaglia il nostro Scanderbeg / perche' quando con fierezza / impugna
la spada / quale folgore brucia e squarcia") e di seguirlo a migliaia
nella marcia da Marsala verso Napoli. Una dedizione assoluta,
nonostante l' antico adagio: "se i calabresi nei confronti degli
italiani si sentono gobbi, gli albanesi di gobbe se ne sentono due".
Una passione piena testimoniata non solo dalle origini di Francesco
Crispi, albanese di Sicilia, ma dalla storia di molti altri
protagonisti del Risorgimento. Come Agesilao Milano, il ragazzo che nel
1856 fu ucciso dopo aver ficcato nel corpo di Ferdinando II un colpo di
baionetta che avrebbe minato per sempre la salute del re di Napoli. O
Girolamo De Rada che, pur essendo nato e cresciuto in Calabria e pur
avendo combattuto per l' Unita' d' Italia, e' considerato il piu'
grande dei poeti albanesi. O ancora Raffaele Camodeca, un ragazzo di
buona famiglia unitosi all' impresa dei fratelli Bandiera e ricordato
in un vetusto volume di Serafino Groppa come "un giovine eroe il quale
a ventiquattro anni, quando piu' gli sorrideva la vita, cadde vittima
del piombo esecrando nel Vallone di Rovito! Mori' gridando: "E' questo
il piu' felice momento della mia vita! Viva l' Italia!". a * Il libro:
Giuseppe Martino, "Il tenente generale", Cultura Calabrese Editrice,
pagg. 159, lire 20 mila.