Intervista Di Gennaro Francione ad Alessandro e Giulio Castriota Scanderbeg D’Albania
F: Francione
Sk: Alessandro e Giulio Scanderbeg
F: Egregi dottori nel libro sull'eroe nazionale albanese
Giorgio Castriota Scanderbeg da qualche giorno uscito per conto dell'editore
Costanzo D'Agostino, col titolo "Scanderbeg un eroe moderno", si
legge un'introduzione firmata "Alessandro e Giulio Castriota Scanderbeg
d’Albania, Roma e Lecce aprile 2003".
Tale introduzione è destinata a sollevare sia presso i paesi
arbereshe d'Italia, che presso il popolo d'Albania, non poche curiosità, dal
momento che ben poche sono le notizie che si hanno sulla sorte dei discendenti
dei principi d'Albania.
Quest'intervista ha lo scopo di colmare in qualche modo
questa lacuna storica ed informare i lettori su chi sono, cosa fanno, in che
contesto vivono i pronipoti del grande Giorgio.
Da dove preferite
cominciare?
Sk: Innanzitutto vorremmo rivolgere un saluto affettuoso
agli albanesi di tutte le regioni d’Italia, e manifestare i sensi della nostra
fraterna e antica vicinanza che ci lega indissolubilmente al popolo d’Albania.
Sebbene la nostra famiglia viva in Italia dal 1468, anno in
cui cade la morte del nostro illustre antenato e l’abbandono del territorio
albanese da parte della moglie e del figlio di lui, sentiamo ancora
l'appartenenza ideale alla terra d'Albania, e seguiamo con partecipe
sollecitudine le vicende recenti del Paese delle Aquile che, liberato da
decenni di dittatura, vive l'esperienza di una democrazia compiuta, e si
accinge come tale ad entrare nella Unione Europea.
Dunque, la storia della nostra famiglia coincide con quella
dell’Albania fino al 1468, anno sventurato in cui la morte di Giorgio lascia il
Paese senza guida e protezione. Il figlio Giovanni si trasferisce nel Regno di
Napoli per insediarsi nelle terre pugliesi lasciategli dal padre, beneficiato
dei feudi di S. Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo dal re Ferdinando
d’Aragona, poi permutati con il ducato di S. Pietro in Galatina e la contea di
Soleto, in provincia di Lecce. La vedova di Scanderbeg, Andronica, viene
accolta a corte a Napoli, dove vivrà fino alla morte in stretta vicinanza e
familiarità con le “tristi Regine” (e cioè la vedova di Ferrante I, e sua
figlia Giovanna, vedova di re Ferrandino) presso la Residenza Reale al Maschio
Angioino. Giovanni Castriota Scanderbeg, primo Duca di Galatina e Conte di
Soleto, diede luogo a discendenza, generando dalla moglie Irene Branković
Paleologa, ultima discendente diretta della famiglia imperiale di Bisanzio,
Ferdinando, secondo Duca di Galatina e Conte di Soleto. Da Ferdinando nacque
Pardo, e da lui – per via mascolina primogenita – discendiamo noi stessi. Da
Galatina la famiglia si trasferì dapprima a Copertino, quindi a Lecce a far
data dal 1682, anno in cui cade il matrimonio di Alessandro - nostro diretto
antenato - con Donna Caterina Giustiniani, figlia del marchese Giovambattista.
Nel corso dei secoli, la nostra famiglia è stata per lo più a Lecce, in un
palazzo - oggi purtroppo demolito -
situato in via dei Perroni, a fianco del maestoso palazzo dei marchesi
Giustiniani, nostri parenti. Negli anni 1752-1754 Vitantonio Castriota
Scanderbeg, figlio del prefato Alessandro, è stato sindaco di Lecce, in
rappresentanza del ceto dei nobili, mentre una sorella di questi, Isabella, è
stata poetessa assai celebre tanto da conquistare un posto nel Dizionario degli
Italiani Illustri, opera in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto
Treccani.
Poi, alla fine del 1700, la famiglia si trasferì ad Amalfi e
a Napoli, a seguito della nomina di Alessandro, figlio di Vitantonio, a
Governatore Regio. Un figlio di Alessandro, Giorgio (nostro diretto antenato),
fu giudice della Gran Corte Criminale di Avellino e Lecce; un altro, Federico,
fu celeberrimo avvocato del foro di Napoli, difensore di Silvio Spaventa,
Filippo Agresti, Luigi Settembrini ed altri celebri imputati nei processi
politici del 1848; Ferdinando, fratello dei precedenti, fu responsabile della
Guardia d’Interna Sicurezza del Re Ferdinando di Borbone; mentre la sorella
Carolina, sposa del Ministro Santangelo, fu donna di grande prestigio e
influenza a Corte. Fino alla metà del 1800 la famiglia ebbe la sua residenza a
Napoli, sempre tuttavia conservando un forte legame con la Terra d’Otranto,
dove peraltro rimanevano i principali interessi patrimoniali dei nostri avi.
Con il ritorno a Lecce nel 1860, la famiglia torna a radicarsi in quella terra,
e vi rimane fino ai nostri giorni. Dalla fine del 1800, quando il nostro avo
Alessandro Castriota Scanderbeg restaurò il cinquecentesco palazzo di famiglia
che elesse a propria residenza, la nostra famiglia vive a Ruffano (Lecce).
Nostro padre Giorgio, prematuramente deceduto nel 1996, è stato un noto
avvocato del foro di Lecce, stimato per le sue capacità professionali e per la
sua dirittura morale. Insieme con nostra madre, donna di grande dolcezza,
sempre dedita ai figli e alla famiglia, ci ha trasmesso il senso del dovere,
che egli aveva altissimo, e l’importanza della tradizione familiare, nel cui
culto siamo vissuti.
Noi figli siamo tutti laureati, Alessandro in Medicina,
Giulio e Paola in Giurisprudenza, e quindi inseriti nel mondo delle
professioni: Alessandro è medico neuroradiologo a Roma, Giulio è magistrato
amministrativo, Paola è avvocato
civilista del foro di Lecce”.
F:Vorrei approfondire un po' meglio il significato del
vostro sentire ancora l'appartenenza ideale alla terra d'Albania e della vostra
partecipazione emotiva al travaglio del popolo albanese che in questo
momento storico, come avete ricordato,
sta lottando per il raggiungimento della piena democrazia ed il conseguente
ingresso nella Comunità Europea.
Come possono esserci ancora legami di forte valenza ideale e
psicologica tra i discendenti di Giorgio Castriota Scanderbeg ed il Paese delle
Aquile, ad oltre 5 secoli dalla morte dell'eroe?
Sk: Vede, ci rendiamo conto che non è facile spiegare il
senso di un tale legame affettivo, che tuttavia sentiamo profondissimo. Il
rischio, che proprio non vorremmo correre, è che le nostre parole possano
leggersi come legate da un filo rosso di sottile ma non per questo meno
insopportabile ipocrisia. Questa lettura sarebbe per noi inaccettabile.
Confidiamo nel buon senso dei lettori e della loro capacità di cogliere il
significato vero del nostro pensiero.
Il discorso è complesso.
Il forte legame con la terra dei nostri padri è stato per
noi, almeno finora, un fatto meramente intimistico, che ha coinvolto sempre e
solo le nostre coscienze e che non ha mai avuto e, probabilmente, mai conoscerà
forme esteriori di manifestazione. Invero, siamo italiani da più di mezzo
millennio e sarebbe - questo sì - davvero ipocrita da parte nostra presentarci
agli occhi degli stessi albanesi come dei loro connazionali a tutti gli
effetti. D’altra parte, mai nessuno di noi discendenti ha vissuto in una
comunità albanese, pur non essendo poche quelle stanziate nell’Italia
meridionale; tuttavia nel leccese, dove la nostra famiglia ha prevalentemente
vissuto e dove pure le migrazioni dal vicino Oriente sono state spesso
massicce, non ha mai messo radici una comunità albanofona, come è accaduto
altrove.
Le ragioni del forte legame con la terra dei nostri antenati
non vanno perciò ricercate in fattori significativi di comunanza di vita e di
esperienze. Resta il fatto però che l’Albania rappresenta per noi un tratto
significativo di storia familiare anzi, se vuole, il momento più alto della
nostra storia. Le imprese di Scanderbeg ne hanno reso immortale il nome,
consegnandolo definitivamente alla Storia, e noi, si parva licet, siamo certo
ben orgogliosi di perpetuarlo e di portare ancora le sue insegne araldiche; ma
per noi Scanderbeg rappresenta qualcosa di più familiare, lo sentiamo vicino, è
un faro che illumina a giorno i secoli
che ci separano e che ancor oggi rischiara il cammino delle nostre esistenze.
Egli è per noi esempio impareggiabile di uomo virtuoso e di perfetto cavaliere;
in lui ammiriamo la grande strategia militare, il coraggio, la fede, il senso
della giustizia e di appartenenza ad un gruppo gentilizio che si dà dei valori
e che per la loro affermazione combatte fino a mettere a repentaglio la stessa
vita, in un momento in cui la drammatica alternativa è resistere all’oppressore
o lasciare il campo al nemico.
Ma Lei si rende conto della grandezza di quest’uomo? Con
pochi uomini e male armati riesce a tener testa al più temibile esercito di
quei tempi, quello - per intenderci - che nel 1453 fa cadere Costantinopoli.
Ecco allora che veniamo alla sua domanda.
E’ questo glorioso passato il collante attuale tra noi ed il
popolo albanese; come non considerare che un momento così significativo del
passato di questo popolo, nel quale ogni albanese si riconosce, è anche il
nostro passato, e che vi è perciò piena condivisione di un patrimonio storico
così significativo ed entusiasmante. Senza il sostegno del suo valorosissimo
popolo anche a Scanderbeg sarebbe stato difficile resistere ai turchi. Un
momento storico così alto (ma non il solo) per la gente d’Albania rappresenta
al contempo anche la fase del nostro apogeo familiare. Le pare poco?
L’intensità del nostro rapporto attuale, sia pure sul piano
ideale, con l’Albania è in definitiva il riflesso di come noi siamo abituati a
vivere la nostra tradizione familiare. Senza mai indulgere nella vanagloria e
nell’autocompiacimento (debolezze che il grande Giorgio avrebbe di certo
disapprovato), noi coltiviamo tuttavia il culto della nostra storia familiare e
serbiamo sempre fresca la memoria dei nostri antenati.
E, ci creda, non è un esercizio fine a se stesso, perché non
è raro che in questa fonte noi ritroviamo la forza per le nostre piccole
battaglie quotidiane, costretti a muoverci in una società sempre più
competitiva e secolarizzata, che sembra aver smarrito il significato di alcuni
valori portanti.
F: Forse i valori a cui fate riferimento si potrebbero
recuperare riflettendo meglio sul
significato della vita, sull’importanza del rispetto dovuto alla dignità degli
altri esseri umani, evidenziando con maggior forza come solo una società
globale, più giusta, può portare la singola persona ad un reale senso d’appartenenza e ad una più elevata realizzazione personale.
Servirebbe un recupero della cultura intesa non più in
termini nozionistici quale emanazione di menti soprattutto meccaniche, ma come conoscenza lata, come capacità di
capire la vita nel suo insieme, come base per lo sviluppo di un’intuizione
capace di creare nell’uomo una visione del mondo in cui l’insieme è correlato
ed indivisibile, in cui ogni cosa interagisce col tutto, in cui il molteplice -
come insisteva anticamente Plotino -
altro non è che semplice espressione dell’Uno. Insomma nel caso
specifico, grazie soprattutto a Scanderbeg, c’è comunanza e unità tra il Popolo d’Italia e il Popolo d’Albania. Siete d’accordo?
Indubbiamente, se si pensa all’Albania di Scanderbeg, il
patrimonio ideale che storicamente unisce i due popoli frontisti, colmando le
poche miglia di mare che la geografia frappone, non può che assumere
consistenza omogenea ed è rappresentato da quei valori che, incarnati da
Scanderbeg, appartengono alla cultura universale di ogni epoca.
Certo, non si vuole con questo stemperare il forte movente
politico-religioso che stava dietro la grande alleanza anti-ottomana, e che fu
il propellente più efficace della stessa azione militare di Scanderbeg. Ma è
indubbio che i tratti di universalismo e di condivisione di un comune
patrimonio ideale che si rinvengono nella antica storia del popolo albanese
rappresentano ancor oggi, all’alba di questo nuovo millennio, le credenziali più
apprezzabili per il rafforzamento dei rapporti tra le due sponde dell’Adriatico
e, più in generale, per la stessa collocazione sul piano geo-politico
dell’Albania tra i Paesi dell’Occidente evoluto e democratico.
Come non ricordare che Scanderbeg fu uomo di grandi vedute,
la cui azione si dispiegava entro un
preciso disegno politico di respiro
europeo. Egli fu anche certamente un raffinato diplomatico, abile nel tessere
una fitta tela di alleanze strategiche con le maggiori potenze della sua epoca,
dal Regno di Napoli al Papato, dalla Signoria di Venezia al Ducato di Milano.
Le imprese di Scanderbeg, di cui vi è testimonianza sovrabbondante nei più
importanti archivi pubblici italiani e nella sterminata bibliografia su di lui,
sono parte inestinguibile della storia
europea del XV secolo. Senza quelle imprese, la storia d’Italia e del
mondo occidentale, e il destino della Chiesa di Roma, sarebbero stati
certamente molto diversi da quelli che conosciamo.
Eppure, partendo anche solo dai fatti di cui si rese
protagonista, s’intuisce facilmente l’insieme dei valori morali attorno a cui
il suo mondo ruotava: fedeltà alla religione cristiana, amore per la propria
terra e per il proprio popolo, indomita ed estrema resistenza all’occupazione
del suolo patrio, sete di libertà, senso profondo della giustizia. E’ provato
che fu prodigo con i suoi uomini - cui sempre destinò il bottino delle molte
guerre -, che fu umile oltre l’immaginabile, che fu leale con ciascuno, e che
esercitò il perdono e la pietà. Insomma, fu il coacervo delle qualità che solo
gli uomini eccezionalmente virtuosi possiedono.
Fu questo incredibile concentrato di virtù cavalleresche la
vera arma segreta di Scanderbeg: ciò che fece di lui una figura mitica, un Eroe
amato e rispettato da tutti, al di là delle credenze religiose o
dell’appartenenza etnica, in tutte le epoche. Scanderbeg incarna i valori umani
per antonomasia, il coraggio, la lealtà, lo spirito di sacrificio,
l’abnegazione, l’intelligenza fulgida posta al servizio di una causa giusta,
l’incorruttibile fermezza dell’animo. Questi valori, validi ora come allora,
sono il grande lascito morale dell’Eroe, la luce che promanando dalla sua
figura si riverbera su tutto il suo popolo.
Al quale siamo certi non faranno difetto la forza ed il coraggio, sotto la guida di una classe dirigente capace e ben determinata, per affrontare le difficili sfide di questi giorni, e per portare al più presto la nostra Albania nel novero dei Paesi dell’Unione Europea.
Tratto da http://www.edsh.org