La resistenza non violenta degli albanesi della Kosova all'oppressione serba, nel decennio degli anni '90, nel coinvolgere tutta la società kosovara, rappresenta un fenomeno di incommensurabile ed alto valore civile; purtroppo quanto realmente succedeva nel cuore dei Balcani non fu adeguatamente rappresentato all’opinione pubblica europea, il che ha permesso all'Europa stessa di evitare di schierarsi a sostegno della resistenza non violenta capeggiata da I. Rugova.
Si trattò di un tragico errore che condusse alla guerra aperta da parte dei serbi con i massacri della pulizia etnica, ed alla conseguente reazione dell’UҀK e dei bombardamenti. L’aver consentito che il confronto degenerasse nella violenza ha comportato orrori ed abissi di separazione e scontro: l'Europa, per l'ennesima e non ultima volta, ha dimostrato la sua incapacità di sapersi proporre come una autonoma realtà politica autorevole e non come una aggregato geografico di nazioni incapaci di proporsi con una sola voce al servizio di un interesse comune generale. La storia decennale della resistenza non violenta degli albanesi della Kosova si è potuta dispiegare solo perché questo piccolo popolo ha inteso riscoprire la propria identità profonda sapendosi emancipare dalle tare dell'antico retaggio della vendetta, "del codice del sangue", che opponeva famiglia a famiglia, clan a clan, villaggio a villaggi. In questo modo ha potuto iniziare la resistenza pacifica dopo aver intrapreso con successo un incredibile cammino di riconciliazione al proprio interno. In gran parte della Kosova era ancora radicato il kanun (Kanuni i Leke Dukagjin) che si era cristallizzato attraverso i secoli: di generazione in generazione il padre lo tramandava al figlio come un dogma immacolato ed intangibile. Il dovere di rappresaglia, secondo le antiche tradizioni consuetudinarie, rappresentava un atto di giustizia demandata a ciascuna famiglia a surroga di una pubblica autorità giudiziaria percepita come assente, o comunque non attendibile e non affidabile . Le regole del kanun prevedevano anche la possibilità di riconciliazione con la presenza di garanti e mediatori. L’idea di riconciliazione nacque in carcere nel 1989 da un gruppo di giovani condannati durante i processi montati dalle autorità serbe. Il movimento prima timidamente, poi sempre più decisamente, si allargò a macchia d’olio coinvolgendo persino gli albanesi della Macedonia, del Montenegro e le comunità all’estero. Il sentimento diffuso era che il popolo albanese doveva riconciliarsi prima con se stesso, in modo che poi, pacificato al suo interno, avrebbe potuto riconciliarsi con gli altri popoli, in primis quello serbo, governando questa evoluzione senza correre il rischio di ricadere in tragiche divisioni. I ‘Consigli di Riconciliazione’ si diffondevano ovunque, presso le chiese cattoliche, ortodosse e le moschee, nei villaggi e nelle città; quando le autorità serbe cominciarono a capire il senso del fenomeno, iniziarono a temerlo e decisero di ostacolarlo: ciononostante esso si sviluppò nelle montagne come nei luoghi privati, ed in occasione della Pasqua e della festa islamica del Bajram si raggiunse l’apice dell’adesione e della partecipazione popolare con incontri che raccoglievano decine e decine di migliaia di persone che assistevano, presenti i garanti ed i mediatori, a ‘pubbliche confessioni’ e dichiarazioni di perdono. Il 1990 venne dichiarato l’Anno della Riconciliazione. Nei primi anni ’90 la popolazione kosovara dopo mezzo millennio di oppressione turca e poi jugoslava, capì la necessità di sciogliere il gelo della vendetta, che aveva causato tante divisioni ed altrettanti danni e lutti, per poter fare nascere una nuova primavera di riconciliazione ed affrontare unito l’oppressione serba in modo non violento e pacifico.
“Le onde turbano la superficie del mare, ma nel profondo esso rimane tranquillo” dice un vecchio proverbio albanese ed il popolo kosovaro ha dovuto fare appello alle risorse della propria interiorità per trovare la calma, il dominio di se stesso per non reagire per un decennio ai venti impetuosi che spazzavano la sua terra e che purtroppo finirono per portare oltre alla privazione dei diritti civili anche a veder calpestata la stessa dignità umana, attraverso continue provocazioni: la cecità criminale dell’oppressione condusse fino agli assassinii, alle torture ed alle stragi. In quel decennio un piccolo popolo solo nel cuore dell’Europa, ha trovato nel profondo della propria cultura, la forza di riconciliarsi e dare un esempio agli altri popoli. Certo questa tremenda prova ha offerto al popolo albanese kosovaro la più terribile occasione di purificazione nella sua storia millenaria: ma l'esperienza di riconciliazione è riuscita ed ha permesso la rinascita del popolo e della nazione anche grazie e soprattutto alle donne che sono sempre state in prima fila nell’esortare alla riconciliazione e poi nel resistere attraverso la lotta pacifica (!). Dalla disposizione alla riconciliazione alla scelta della non violenza, per la gente della Kosova il passo è stato breve: l’esito nobile di questo processo è costituito dalla presa di coscienza che l’anima, fonte di innate verità morali e, per i credenti, voce del Trascendente, non può chiudersi nei confini di un popolo: gli albanesi della Kosova, con il loro immenso sacrificio, hanno dimostrato di averlo compreso.
L’esempio e la lezione del popolo fratello kosovaro non può non farci riflettere sulla situazione che da tempo vive l’Arbëria: gli arbëresh vivono in condizioni di subalternità linguistica quasi fossero confinati in colonie interne; i mass-media ormai endemicamente impermeabili alle culture ‘altre’ presenti nei territori, continuano ad operare con l’antico vizio di sentirsi deputati ad egemonizzare culturalmente le minoranze, come se queste fossero di impedimento ad una assunzione di dignità patriottica, e finiscono sempre più per determinare situazioni asfittiche al libero dispiegarsi delle identità culturali anche se queste hanno dato storicamente ampia prova di fedeltà patriottica. Nelle scuole dell’obbligo la lingua avita non è di casa. La precaria economia dell’Arbëria porta le energie giovani ad emigrare per arricchire territori lontani e nel contempo a sottrarre sempre più linfa vitale ai propri paesi; in questo modo la trasmissione delle tradizioni consuetudinarie della cultura orale e della lingua sono fortemente messe a repentaglio, malgrado gli articoli 3 e 6 della Costituzione, la legge 482 del ’99 e le leggi regionali, tutte spesso insufficienti, che dovrebbero tutelarci e che rimangono sulla carta come ’bei enunciati’; senza che lo si avverta tutto ciò finisce per porci al cospetto di quello che in altra occasione ebbi modo di definire un ‘genocidio culturale-linguistico silente’ che mette a dura prova l’esistenza dell’Arbëria, per fortuna ancora viva e la meglio integrata nel Mediterraneo. Di fronte a questi pericoli non si può rimanere inerti ed è conveniente per tutti prendere coscienza del fatto che quando lo Stato trascura e conculca tradizioni ed identità culturali presenti sul suo territorio da secoli, viola i diritti naturali (Pactum Societas), e rischia fortemente ed inopinatamente di compromettere la propria legittimità: il che vale in particolare nei confronti delle numerose comunità arbëreshë e dei singoli che le compongono, le quali ed i quali hanno il diritto di reagire: anche, se necessario, disobbedendo ed intraprendendo una lunga marcia di azioni non violente, ma attive, per ristabilire il diritto alla propria dignità, che passa anche con il ripristino delle democrazia linguistica e la costituzione di una Regione storica Arbëreshë (R.s.A.) dotata di una propria Autonomia Amministrativa. Infatti senza la possibilità di un dignitoso sviluppo economico dell’Arbëria diventa di fatto impossibile garantire una reale tutela della propria cultura. Dobbiamo quindi chiederci come ci possa essere possibile intraprendere questo percorso di tutela non violenta della nostra cultura e delle nostre tradizioni, attraverso azioni unitarie e propositive per il ristabilimento dei diritti calpestati delle minoranze. A tal riguardo a me pare che l’esempio della Kosova sia illuminante: anche per l’Arbëria vi è la necessità di giungere ad una operazione di riconciliazione al proprio interno; certo non abbiamo alcun ‘kanun’ da superare, ma abbiamo l’egocentrismo di molti da accantonare, il gioco di squadra e di squadretta contrapposto da dismettere, i bassi e volgari interessi di bottega (il proprio ‘particulare’) da abbandonare, la deleteria logica frazionista da cessare, il risentimento, spesso motivato, da acquietare e l’egoismo da contenere, senza tuttavia dimenticare una disposizione all’ipertrofia dell’ego albanese, che va opportunamente contenuta. Questa realtà congela energie e saperi e paralizza l’azione positiva che può ribaltare lo status quo. Tutti dobbiamo vestire i panni dell’umiltà. Tutti debbono ‘perdonare’ e farsi ‘perdonare’. Difficile? Se ci sono riuscite le genti della Kosova che erano attanagliate da vendette di sangue, da lutti e profondi dolori per i loro cari uccisi, perché non dovrebbero riuscirci le comunità arbëreshë per raccogliersi all’unisono e lottare per la propria sopravvivenza?
Se le donne kosovare hanno dimostrato di essere il pilastro della loro società, anche le donne arbëreshë hanno un’occasione unica, in questo tempo, per dimostrare la loro presenza e forza d’animo. Saranno preziose nell’invitarci a riflettere, nel promuovere iniziative di conciliazione, nell’ elaborare proposte evolutive e nell’agire per il cambiamento dello stato di cose presenti nelle loro comunità: il loro ruolo può davvero essere “determinante”. Le nostre donne possono trasformare la palude di incertezze nella quale si dibatte il presente, in un futuro positivo che onori la forza della Vita, ci possono aiutare a cogliere le interconnessioni tra le varie forme di oppressione: sessuale, economica, culturale e politica. Il coraggio di ESSERE è la chiave di volta: IL CORAGGIO DI ESSERE DONNA, contro i retaggi della cultura patriarcale che continua a nutrirle di lesivi stereotipi, di inganni, pur di mantenere vivo il tabù contro le donne che si sentono tali. Il percorso da intraprendere non può che portare ad esodi da vecchie schiavitù verso nuove ‘terre’ ed orizzonti gioiosi di liberazione per tutte e tutti.
In Kosova per tutti gli anni ’90 la Chiesa cattolica anche attraverso la dinamica azione del Vescovo albanese Mons. Prela, ha sostenuto in modo formidabile il processo di riconciliazione. All’interno dell’Arbëria auspichiamo che l’Eparchia di Lungro, nell’avviarsi verso il centenario della propria costituzione, attraverso il suo massimo rappresentante Vescovo Mons. D. Oliverio, colga l’occasione per promuovere una riflessione profonda nella nostra comunità ed agisca da lievito e buon pastore, quale è, per accompagnare un processo di rilancio della nostra identità culturale nello spirito della riconciliazione, a favore di un movimento di Rinascita Arbëreshë pacifico ed unitario; azione che, naturalmente, dovrà coinvolgere e nutrirsi anche dell’apporto fraterno delle parrocchie di rito latino, per costruire insieme le basi di un futuro che permetta di perpetuare la forte memoria culturale ed identitaria della ‘nazione albanese in diaspora’.