I paesi arbëreshë situati nel Molise, entro i confini della provincia di Campobasso, lungo la Valle del Biferno: Campomarino, Montecilfone, Portocannone e Ururi, appartengono oggi tutte e quattro alla Diocesi unificata di Termoli-Larino. .

Prima dell'unificazione, delle due diocesi Montecilfone apparteneva a quella di Termoli, a quella di Larino gli altri tre. Fino al 1975 anche Chieuti (1), importante Comunità arbëreshe in provincia di Foggia, faceva parte della Diocesi di Larino, prima di passare a quella di San Severo in Puglia.

Le due diocesi, accorpate nel 1986, erano in effetti già unite "aeque principaliter in persona Episcopi" sin dal 1924. Sono entrambe di origine molto antica: risale al IV secolo quella di Larino, al VI secolo la diocesi di Termoli (2). Gli storici danno per certo che un vescovo di Larino, Paulus larinensis, abbia preso parte al "sacro e grande Concilio Ecumenico" celebrato a Nicea nel 325.

A Larino venne fondato il primo seminario post-tridentino della Chiesa, aperto ufficialmente in data 26 gennaio 1564 dal vescovo Belisario Balduino in conformità alle direttive della Riforma cattolica promossa dal Concilio di Trento (1545/63) (3).

Prima dell'arrivo degli Arbëreshë (sec. XV), era largamente diffusa nella zona del Larinese la presenza di numerosi monaci francescani itineranti, ma anche di basiliani (4) e di altre osservanze tipiche del medioevo: Celestini, Zoccolanti, Capriolanti, Discalciati (5); nel tempo, di questi piccoli monasteri alcuni furono soppressi e incorporati nell'Ordine dei Frati Minori, altri caddero distrutti dal violento terremoto avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 1456 (6).

Al loro arrivo nel feudo di Ururi, l'autunno del 1468 (o forse ancor prima) (7), gli Arbëreshë trovarono un territorio interamente sconvolto, campi incolti e borghi abbandonati non solo per la devastazione causata dal sisma, ma anche per le carestie e le frequenti incessanti incursioni saracene lungo le coste adriatiche del Regno (8).

Varie furono le ragioni che indussero gli Arbëreshë ad emigrare nel corso dei secoli dall'Arbëria per stanziarsi nelle regioni meridionali d'Italia; le ultime, d'ordine politico-religioso, provocate dall'invasione turca, andarono a sovrapporsi alle motivazioni prevalentemente economiche e militari che avevano causato migrazioni nel Molise già dal XIII secolo; "Molte famiglie dell'Albania e dell'Epiro, non soffrendo le barbarie del Turco, alcune si ritirarono nello stato Veneto, altre in Sicilia ... moltissime furono accolte in questa diocesi", riferisce mons. Tria, vescovo di Larino (9).

Ad introdurre gli Arbëreshë nelle terre del Molise fu mons. Antonio De Misseriis, vescovo di Larino (10); egli li accolse nella chiesa di S. Antonio da lui stesso fatta edificare appena fuori della città della sede vescovile e in quel luogo assegnò loro, divisi in gruppi di famiglie, le terre dove stanziarsi, lavorare e prosperare; non trascurando di fornirli prima del bestiame e degli attrezzi agricoli necessari.

Alcune famiglie raggiunsero il feudo di Ururi, sottoposto alla giurisdizione della chiesa di Larino (11) già dal 1075, sorto a seguito della donazione da parte di Roberto I, conte di Loritello (attuale Rotello), nipote di Roberto il Guiscardo, al vescovo di Larino; il feudo era allora completamente disabitato e abbandonato. Altri gruppi furono inviati a ripopolare i casali di Portocannone, di Cerritello (gli Arbëreshë di questo casale si rifugiarono poi nelle alture di Montecilfone spaventati dal tremendo flagello del colera scoppiato nella zona nel 1537) (12), di Campomarino e in altri casali sparsi nell'agro larinese: casali di S. Elena, di Colle Lauro, di San Barbato e nel casale di Santa Croce di Magliano dove furono relegati dai nativi nella parte più periferica del paese, quartiere tuttora chiamato "Quarto dei Greci" (gli Arbëreshë dagli indigeni venivano chiamati anche greci per via del loro rito bizantino celebrato in lingua greca).

Lo scenario che si presentava agli occhi degli Arbëreshë nelle terre molisane, dovette essere allora davvero desolante, ma ad essi non era concesso scoraggiarsi; da subito dovettero darsi da fare per ripristinare e migliorare le condizioni del territorio loro affidato.

Bonificarono e dissodarono la terra, ricostruirono le case dirute, ripararono le cadenti. Contribuirono, insomma, sensibilmente alla rigenerazione delle contrade colpite dalla depressione demografica ed economica.

 

Travagliata e carica di traversie fu perciò la vita degli antenati in queste nuove terre; non mancarono umiliazioni e sospetti da parte delle popolazioni indigene con le quali era difficile instaurare rapporti di buon vicinato, né la protezione e la benevolenza dei vescovi feudatari sia di Larino che di Termoli valsero a preservare i nuovi arrivati dalla diffidenza e dal clima di ostilità che andava creandosi attorno ad essi, in particolare, a causa della diversità della lingua e del rito religioso.

In verità, la pratica del rito bizantino metteva in agitazione anche i vescovi delle due diocesi, specialmente dopo il Concilio di Trento; non furono pochi, infatti, i ricorsi presentati alla Congregazione di Propaganda Fide da parte degli stessi vescovi, interessati com'erano ad affidare al clero latino le chiese delle comunità albanofone.

Gli Arbëreshë resistettero a lungo alle pressioni del clero latino, anche perché erano ben consapevoli di perdere, con la soppressione del rito bizantino, un punto di riferimento essenziale della propria identità religiosa e culturale.

Il rito bizantino fu praticato fino a tutto il sec. XVII; poi, ne decretò la fine mons. Giuseppe Catalani, vescovo di Larino (1686-1703), non senza numerose e rumorose proteste da parte delle popolazioni di Campomarino in particolare (13). A Ururi il primo parroco di rito latino fu tacciato di apostasia e si guadagnò il perenne soprannome di "ndërrjon" tuttora perdurante nella famiglia discendente (14); gli Ururesi per lungo tempo gli negarono le decime.

Il tempo andò smussando i contrasti; chiusa definitivamente la controversia del rito a favore di quello latino; alleviato il peso delle decime che gli Arbëreshë erano sempre e in ogni caso tenuti a versare alle rispettive mense vescovili, la vita degli Arbëreshë si avviò lentamente e faticosamente verso una più dignitosa condizione di vita; l'ingegnosità, la perseveranza, la laboriosità fece il resto.

Insieme con le Comunità di Villa Badessa (Pescara) dove, mentre è tuttora praticato il rito bizantino, la lingua arbëreshe si è da tempo dissolta (15), e di Pianiano (Viterbo) dove invece da tempo si sono spenti sia il rito bizantino sia la parlata arbëreshe (16), i paesi italo-albanesi molisani sono quelli situati più a Nord nel Continente, geograficamente lontani e isolati dalle Comunità albanofone concentrate in Calabria e in Sicilia, e perciò non coinvolti nelle attività e nelle istituzioni culturali sorte, per la conservazione e la tutela della lingua e del rito, delle quali gli Arbëreshë di Sicilia e di Calabria furono e sono tenaci custodi e fervidi cultori.

Tagliati fuori, perciò, da ogni benefico contatto con la vitalità dei gjërì dei nuclei di Sicilia e di Calabria, privati della pratica del rito bizantino da oltre due secoli, privi di ogni qualsiasi classe intellettuale che avesse mai preso a cuore il problema della conservazione e coltivazione della parlata arbëreshe, è già un miracolo che l'arbërishit si sia ancora mantenuto in buono stato a tutt'oggi nelle nostre contrade, salvato forse proprio da una ben radicata cultura popolare, dalla capacità, cioè, del popolo di assorbire il nuovo senza perdere la propria originalità.

Il primo e più antico documento scritto in arbërishit nelle Comunità arbëreshe molisane risale al 1875 con la traduzione in arbëresh di una novella del Decamerone di Boccaccio fatta dall'allora arciprete di Ururi (17).

Solo recentemente, infatti, grazie anche all'impulso della Legge 482/99, da appena qualche anno, si va notando nei paesi arbëreshë del Molise un certo risveglio, una presa di coscienza di come sia importante e doveroso avviare un processo di salvaguardia per tutelare e valorizzare il patrimonio storico e culturale degli Arbëreshë, e preservarne la lingua mediante un'intensa opera di alfabetizzazione ad ogni livello.

Oggi, tutte e quattro le comunità arbëreshe, dopo un lungo periodo di dure vicissitudini e di fatiche e di emarginazione sociale, politica e culturale, sono altrettante cittadine linde, ordinate, bene organizzate e bene amministrate, tese al benessere economico e aperte a sempre nuove iniziative culturali e di progresso civile.

Di ciascuna di esse si proverà, ora, qui di seguito, a tracciare sinteticamente un quadro topografico-storico, quanto più preciso possibile, ma certamente non esaustivo, in quanto le poche notizie riportate sono da completare e integrare con ulteriori indagini sia archivistiche che bibliografiche.

La patrona degli italo-albanesi nel Molise è la Madonna Grande (Shën Mërija Madhe), venerata nel santuario mariano di Nuova Cliternia, nei pressi di Campomarino, festeggiata il 6 agosto (18) (Besa/Roma).

 

Note

1.    In questa cittadina fu rinvenuto il manoscritto del XVIII secolo (noto come il Codice Chieutino), opera dell'arciprete Don Nicolò Figlia, sacerdote di rito greco-bizantino, pubblicata a cura di M. Mandalà nel 1995.

2.    Nella cattedrale di Termoli furono ritrovate nel maggio del 1945 i resti mortali di San Timoteo, discepolo prediletto di San Paolo, compatrono, con San Basso, di Termoli.

3.            Mons. Costanzo Micci, Il primo seminario della cattolicità, in L'Osservatore Romano del 2.2.1964; Pietrantonio, U., Il seminario di Larino primo postridentino, Tip. Polig. Vat., 1965.

4.    Nel 1054, il Monastero di Santa Maria di Tremiti assorbiva una cella basiliana sorta sul lago di Lesina (cfr. A. Petrucci, I bizantini e il Gargano, Foggia 1955).

5.            Pietrantonio, U., Il monachesimo benedettino nell'Abruzzo e nel Molise, Lanciano, Carabba ed., 1988;

Anastasi L., I Francescani, Palermo 1952.

6.    Sul violento sisma del 1456 esiste una vasta bibliografia:

Baratta M., I terremoti d'Italia, 1901 (ristampa anastati  ca 1979); Figliuolo B., Il terremoto del 1456, 1988; Motta E., I terremoti di Napoli negli anni 1456 e 1466, in ASPN, XII (1887); in proposito, mi piace segnalare che il primo a fissare la notizia su carta, espressa in dialetto calabrese translitterato in greco, fu un certo monaco di nome Romano Paoli, il quale annotò l'avvenimento del sisma all'istante, appena se ne è reso conto, nel margine superiore del breviario che stava in quel momento recitando nel chiuso della sua cella nel monastero basiliano di Carbone (PZ), (cfr. Annotazioni volgari di S. Elia di Carbone a cura di A. M. Perrone e A. Varvaro, in Medioevo Romanzo, VIII, 1983,1).

7.           "Nel 1455, i Canonici del Monastero di S. Maria di Tremiti, ottennero da Callisto III di poter locare terreni di loro proprietà agli Albanesi allora giunti nel Molise", in Codice Diplomatico del Monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di A. Petrucci, Roma 1960 pag. LXXXVII, p. I; (cfr. Archivio Segreto Vaticano Reg. Lateran. 498, c.85 A.); Mammarella, G., Larino sacra, Campobasso 1993.

8    Marino L., La difesa costiera contro i saraceni e la vita del marchese di Celenza alle torri di Capitanata, Campobasso, Nocera editore, 1977; Algranati, G., Le torri costiere del Mezzogiorno e le tradizioni popolari, in Brutium, 9, 10 settembre 1966.

9.   Mons Tria Giovanni Andrea, Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della Città e Diocesi di Larino, Roma 1744; Ricci, P., Fogli abbandonati di storia larinese, Larino 1913; Magliano, A., Considerazioni storiche sulla città di Larino, Campobasso 1895;      Carfagnini, L., Memorie storiche di Montorio, manoscritto conservato nell'archivio privato di Guido Vincelli in Montorio nei Frentani (CB).

10. Mammarella G., Larino sacra, Campobasso 1993.

11. Libertucci A., Il nome del mio paese, in Kamastra, a. IV, n. 1, gennaio/febbraio 2000.

12. Resětar M., Le colonie serbocroate nell'Italia Meridionale, Vienna 1911.

13. Korolewskij P.C., Italo-greci e italo-albanesi; documenti esistenti nell'archivio di Propaganda Fide (cfr. Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, a. XVI, fasc. 1-4, 1947).

14. Pertanto è inesatta la notizia riportata nel "Dizionario biobibliografico degli italo-albanesi" di G. Laviola, secondo la quale mons. Felice Samuele Rodotà nel 1736/1737 avrebbe visitato anche le chiese greche della Diocesi di Larino; a quell'epoca, in realtà, il rito bizantino nei paesi arbëreshë del Molise era già stato soppresso da più decenni; chiese, sulle quali, peraltro, il vescovo di Berea non avrebbe avuto alcuna giurisdizione. Le uniche visite ai monasteri e alle chiese greche del Molise potrebbero essere state quelle effettuate, per ordine di Onorio III, dal vescovo di Crotone e dall'Abbate di Grottaferrata nel maggio del 1221: "Honorius III episcopo Crotonensi et Abbati Criptae Ferratae mandat ut graecorum monasteria ordinis S. Basilii in Terra Laboris, Apulia et Calabria constituta visitent et reforment" (cfr Reg. Vat. 11, f. 122, n. 612).

15. Bellizzi L., Villa Badessa, Pescara 1994;

16.         Granelli A., Pianiano, Una colonia albanese dello Stato Pontificio, Roma 1913; Stendardi, E., Pianiano e i suoi ricordi albanesi, Roma 1939; Donati A., Un vescovo nativo di una colonia albanese nel Lazio, Michelangelo Calmet (1771-1817), in Rivista d'Albania, anno IV, giugno 1943; Fioriti L., Un'emigrazione albanese nella Tuscia, in Zjarri (numero speciale 1969-1989) anno XX, n. 33, 1989; Pianiano tra gli Etruschi, in Besa-Fede n. 174, maggio 2005.

17. Il parroco si chiamava Andrea Blanco; la novella tradotta nella parlata arbëreshe di Ururi (la nona del Decamerone) fu pubblicata nel libro di Giovanni Papanti: I parlari italiani in Certaldo, Livorno 1875 (cfr. Libertucci, A., Il documento più antico della parlata arbëreshe di Ururi, in Kamastra, a. 7, n. 2, 2003).

18. Delle Donne Marangone C., Pellegrini a Madonna Grande, 1999.

 

 

 

 

Articolo tratto dalla rivista Besa, Novembre 2007 

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